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Un fiore impiegato nella distillazione del gin: il pregiato rizoma dell’iris
Secondo la mitologia greca, Iris era una messaggera divina, spesso portatrice di messaggi funesti, figlia di Taumante e della ninfa Elettra e personificazione dell’arcobaleno. E non è un caso che l’iris sia una pianta con fiori variopinti che vanno dal blu al viola, dal giallo al bianco, con sfumature di mille tonalità.
L’iris, conosciuto anche con il nome di giaggiolo, è una pianta appartenente alla famiglia delle Iridacee che comprende alcune centinaia di specie, circa trecento. I fiori, che sbocciano dall’inizio della primavera fino alle prime giornate di autunno, sono formati da tre tepali esterni ripiegati verso il basso e tre interni che, al contrario, sono incurvati verso l’alto; le foglie sono dritte e slanciate a forma di lancia. Questa pianta, originaria dell’emisfero settentrionale, è utilizzata per adornare e abbellire giardini, aiuole e parchi, ma ne esistono anche delle specie selvatiche che si possono scorgere lungo i corsi d’acqua.
Nell’antichità l’iris era coltivata per le sue proprietà mediche, come rimedio contro le infiammazioni e le infezioni batteriche. Le sue parti vegetali contengono sostanze, ad esempio flavonoidi e glicosidi, con proprietà antinfiammatorie e antiossidanti. Ai giorni nostri è coltivato, oltre che per scopo ornamentale, per il suo rizoma, e la Toscana, in modo particolare la zona del Chianti, ne è la maggior produttrice.
Dal rizoma dell’iris si estrae un prezioso olio essenziale, il cui profumo ricorda quello delle viole e delle mammole. Durante il periodo estivo si procede con la raccolta dei rizomi che, quando sono freschi, presentano un odore acre. Dopo essere stati ripuliti, vengono tagliati in sezioni e posti a essiccare per circa due o tre anni; in questo lungo periodo si sviluppano le tipiche sostanze aromatiche. Trascorso questo tempo, i rizomi vengono distillati: dalla distillazione si ottiene un composto che per la sua densità è chiamato burro di iris, dal quale viene ricavato l’olio essenziale. Il rizoma finemente polverizzato viene invece usato per profumare talchi e ciprie, nonché dentifrici e sacchetti per la biancheria.
Già nell’Ottocento venne individuata la sostanza alla base del profumo dell’iris, contenuta nell’olio essenziale: si tratta di un chetone che prende il nome di irone. Questo composto organico è isolato per distillazione in corrente di vapore, spesso ripetuta più volte a causa dell’estrema volatilità della sostanza. Con mille chilogrammi di rizomi freschi si ottengono 250 chilogrammi di prodotto essiccato che, dopo la distillazione, danno appena due litri di olio essenziale. Questo spiega la ragione per cui l’olio essenziale di iris sia considerato una delle sostanze naturali più pregiate.
Il rizoma di iris è impiegato anche nell’arte distillatoria, spesso come una botanica di numerosi gin. Oltre che per le sue caratteristiche organolettiche, è usato per fissare gli aromi delle altre botaniche rendendoli meno volatili.
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Cin cin: come è nato il brindisi e la sua curiosa storia nel corso del tempo
«Discorso! Discorso! Discorso!». Quante volte abbiamo intonato queste parole durante un brindisi? Per noi italiani il brindisi è una cosa seria e ogni occasione è buona per sollevare i bicchieri al ritmo di “cin cin”. Con questo semplice gesto si celebrano i momenti più importanti delle nostre vite e gli eventi che meritano di essere ricordati, si stringono nuove conoscenze e si consolidano vecchie amicizie.
Questa azione per noi così comune, in realtà, era già praticata dalle civiltà antiche: Assiri, Babilonesi, Egizi e Sumeri erano soliti brindare con coppe e bicchieri colmi di bevande alcoliche.
Vi sono testimonianze storiche secondo le quali, già nel VI secolo a.C., i Greci offrivano libagioni alle divinità. In contesti come questi, legati alla ritualistica religiosa, le bevande santificate, perlopiù vino, venivano versate su altari o in fosse scavate nel terreno per ingraziarsi gli dèi e gli esseri soprannaturali. Solo al termine del rito i partecipanti potevano consumare tali bevande e brindare alla loro e altrui salute.
Fu con l’affermazione e l’espansione dell’Impero romano nel bacino del Mediterraneo e nel cuore dell’Europa che il brindisi assunse un nuovo significato, molto più simile a quello odierno. Accanto ai riti religiosi, il brindisi, soprattutto in seno ai patrizi, divenne un gesto per celebrare noti personaggi o avvenimenti pubblici di riguardevole importanza. Durante i secoli dell’impero, ad esempio, quando in Senato veniva approvato un nuovo decreto si brindava in onore di Augusto, il primo imperatore. Chi prendeva parte a queste occasioni arrivava quasi sempre all’ubriacatura, alla perdita dei sensi e, molto spesso, anche del pudore.
Con la diffusione del cristianesimo il gesto di sollevare il calice al cielo tornò ad avere una valenza prettamente liturgica. Nella messa, in cui si ricorda l’ultima cena di Gesù, il vino diventa il simbolo del sangue di Cristo che, contenuto all’interno del calice, viene consacrato e mostrato ai fedeli. Il calice fu utilizzato fin dai primi tempi del cristianesimo per benedire il vino: i primi luoghi di culto erano ambienti comuni e il suo uso era legato alle suppellettili più diffuse, senza particolari prescrizioni riguardo alla materia o alla forma.
Il brindisi, nonostante la diffusione del cristianesimo, non perse il suo significato gioviale, ma, anzi, si arricchì di nuovi valori e utilità. In passato quando gli omicidi per avvelenamento erano pratica comune, era diffusa la credenza che il far tintinnare due bicchieri colmi di vino avrebbe assicurato la salubrità del liquido: un potenziale colpevole, infatti, non avrebbe rischiato che una piccola parte di vino avvelenato finisse nella sua coppa.
Nel corso del Medioevo il brindisi era un modo per tenere lontani i demoni e gli spiriti maligni: si riteneva che il tintinnio dei bicchieri, accompagnato a risa e grida, spaventasse questi esseri diabolici, in quanto simile ai rintocchi delle campane che annunciavano l’inizio della celebrazione eucaristica.
Questo gesto divenne così popolare che entrò, in maniera legittima, nella grande letteratura. Uno dei primi riferimenti scritti al brindisi, e in particolar modo al corrispettivo termine inglese toasting, si trova ne Le allegre comari di Windsor, la commedia firmata da Shakespeare. Sir John Falstaff, il protagonista, in una battuta esclama: «Vammi a prendere un quarto di vin cotto ed inzuppaci un buon crostino caldo». Questa pratica, che può sembrare strana, in realtà spiega in maniera eloquente l’origine della parola toasting: in passato era prassi comune intingere un tozzo di pane nel vino per far sì, almeno così si credeva, che assorbisse l’acidità della bevanda migliorandone il gusto. Il toasting, nel tempo, ha assunto quindi il significato di brindisi e ha portato alla nascita, in Inghilterra, del toastmaster, la persona incaricata durante gli eventi di presiedere ai brindisi.
Il crescente consumo di alcol in Europa e negli Stati Uniti, soprattutto a partire dal Settecento, portò alla nascita di movimenti e all’emanazione di leggi atti a ridurlo. Tra i più noti vi sono i Gin Acts, una serie di leggi sancite in Gran Bretagna tra il 1729 ed il 1751 per limitare il consumo di gin, e il Movimento per la temperanza, un movimento sociale diffusosi soprattutto nei Paesi di lingua anglosassone che promuoveva l’astinenza totale dalle bevande alcoliche.
Infine una curiosità altrettanto interessante: per scoprire l’origine del nostrano “cin cin” dobbiamo scomodare i commercianti cinesi. Nel XIX secolo i mercanti cinesi che intrattenevano scambi commerciali con i mercanti e i marinai inglesi erano soliti, prima di ogni trattativa, offrire del tè rivolgendosi a loro dicendo “qing, qing”, ovvero “prego, prego”. I commercianti britannici cominciarono a utilizzare questa espressione, in quanto frase benaugurante, durante i brindisi, la quale, per mezzo della nobiltà che ne venne contagiata, valicò i confini degli Stati italiani. Inoltre, il “cin cin” ha anche una valenza onomatopeica: la parola ricorda infatti il suono cristallino dei bicchieri che collidono.
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L’arte della miscelazione sa ammaliare: i grandi cocktail a base di gin
Il mondo della miscelazione pullula di un numero incalcolabile di cocktail: ogni barman e ogni appassionato ha le proprie ricette e basta solo una piccola variazione – magari un ingrediente diverso, una decorazione differente o l’uso di un distillato al posto di un altro – perché ne possa nascere una nuova che va ad arricchire questo universo variegato. I cocktail a base di gin, negli ultimi anni, sono protagonisti di una vera e propria rinascita. Il gin, in quanto distillato estremamente versatile, è tornato a splendere nelle cocktail list dei locali e negli home bar. Il merito è da imputare al numero in costante aumento di gin che, di anno in anno, vedono la luce e alla dinamicità che caratterizza questo spirito: il sapore pungente e balsamico conferito dal ginepro e l’uso di diverse botaniche fanno sì che i cocktail a base di gin siano sempre più richiesti, bevuti e anche preparati a casa. Un ripasso non guasta mai: ecco, quindi, qui delle brevi presentazioni dei più conosciuti.
GIN TONIC
Un classico intramontabile e semplice da preparare, il gin tonic è il primo cocktail a cui si pensa quando si parla di gin. Per realizzarlo bastano solo tre ingredienti (che possono avere un’infinità di stili): gin, acqua tonica e limone. Il risultato è un drink di facile beva perfetto per l’aperitivo.
BRAMBLE
Originale e ammaliante per via del colore, il Bramble è un cocktail da aperitivo nato negli anni Ottanta a Soho, uno dei quartieri più alla moda di Londra. Si tratta di un sour dove gin, limone e zucchero sono amalgamati dal liquore alle more, che aggiunge un’interessante nota dolce.
WHITE LADY
Elegante e sofisticato come il nome che porta, il White Lady può essere considerato la versione europea del Margarita, in cui il gin sostituisce la tequila. Al distillato si aggiungono limone e triple sec: si ottiene così un sour dalle note agrumate e dall’elevato tenore alcolico.
MARTINI
London Dry Gin e Martini secco sono i due ingredienti che danno vita a questo cocktail iconico. Da servire in una coppa rigorosamente gelata, il Martini, per essere reso ancora più interessante, può essere guarnito con olio essenziale di limone, un’oliva o una cipollina in agrodolce. Inoltre, per un sapore più complesso è possibile impiegare le stesse quantità di gin e vermouth bianco.
NEGRONI
Aromatico, amaro ed erbaceo, il Negroni è un altro grande classico gettonato per l’aperitivo. Il Negroni, tra i cocktail a base di gin, è il più nostrano: a comporlo, infatti, vi sono gin, bitter e vermouth rosso nelle stesse proporzioni, tre centilitri ognuno. La storia vuole che sia stato inventato a Firenze dal bartender del conte Camillo Negroni quando quest’ultimo chiese di bere qualcosa di più forte di un Americano.
GIN FIZZ
Di colore trasparente con leggere sfumature gialle, il Gin Fizz è uno dei cocktail estivi per eccellenza, nonché il re dei fizz, ovvero dei cocktail sour allungati con soda. Per prepararlo bastano gin, soda, succo di limone e zucchero: miscelandoli si ottiene un drink che si può bere a qualsiasi ora del giorno e della sera. In questo cocktail il gin è il protagonista assoluto, quindi il consiglio è di usarne uno di ottima qualità.
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Il rosa è di tendenza: i pink gin sono di moda e spopolano ovunque
Se c’è una cosa che Instagram e, più in generale, i social network sanno fare bene è dettare nuove tendenze, in ogni ambito della vita: dagli unicorni sotto forma di tazza, lampada e torta ai cronut (che furono protagonisti di una puntata della sitcom 2 Broke Girls) a sfide di vario tipo come la cinnamon challenge e la ice bucket challenge. Neppure il mondo della miscelazione è riuscito a sfuggire alle mode lanciate dai social: a spopolare nell’ultimo periodo, merito del fatto di essere fortemente instagrammabile, è il pink gin.
Ma cos’è il pink gin, questo distillato di un amabile rosa protagonista di molti scatti? Scopriamolo assieme!
Il nostro viaggio inizia in Sud America, in Venezuela per la precisione. Il medico tedesco Johann Gottlieb Benjamin Siegert, che operava come chirurgo generale nell’esercito di Simón Bolívar, nel 1824 dopo alcuni anni di studi brevettò un medicinale per curare i disturbi gastrici e intestinali; miscelando erbe e piante aromatiche creò l’angostura bitter, che battezzò con il nome della città in cui risiedeva, Angostura per l’appunto (oggi Ciudad Bolívar).
Solo pochi anni più tardi, alle metà del secolo, l’angostura cominciò a essere presente sugli scaffali delle farmacie dei Caraibi, degli Stati Uniti e del Regno Unito. In quanto medicamento, i marinai della Royal Navy la adoperavano per combattere il mal di mare. Il sapore amaro, molto più persistente di quello dell’angostura odierna, rendeva difficile berla in purezza; per tale ragione i marinai iniziarono a mischiare il bitter con il gin, che nelle stive delle navi non mancava di certo. Nacque così un miscelato che per via del colore rosato venne chiamato Pink Gin.
Il cocktail che prevede solo l’uso di questi due ingredienti, sebbene vi sia chi lo allunghi con della soda o dell’acqua tonica e lo serva con una zest di limone, ben si differenzia dai pink gin che si trovano oggigiorno in commercio. I pink gin, da intendere come distillati, non hanno nulla a che fare con il drink che porta lo stesso nome, se non per il colore.
I pink gin che acquistiamo e che stanno spopolando sui social sono dei comuni gin che, dopo la distillazione, vengono infusi con botaniche che conferiscono il caratteristico color rosa, come fragole, lamponi, ribes rosso, rosa o rabarbaro, o a cui vengo addizionati coloranti naturali.
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