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Ecco a voi la castagna, da cibo di sussistenza a nuovo presidio Slow Food
Le lunghe e fredde sere di novembre trascorse a casa, al riparo dalla nebbia che scandisce il trascorrere delle ore, sono il momento perfetto per rilassarsi con un buon bicchiere di vino novello e una manciata di castagne appena sfornate, ancora fumanti. Con la loro pasta soda e il caratteristico sapore che le differenzia da ogni altra tipologia di frutta a guscio, le castagne sono uno dei prodotti tipici dell’autunno che, come i fichi o l’uva, si possono gustare solo per un tempo limitato.
La castagna è il frutto della Castanea sativa, una pianta originaria del Mediterraneo orientale e dell’Asia Minore che, per merito dell’uomo, si è diffusa in tutto l’emisfero boreale.
In Età antica la coltivazione e il consumo di castagne, sebbene conosciuti, erano scarsamente diffusi, tant’è vero che in greco antico, per lungo tempo, non esisteva nemmeno una parola per indicare questo frutto, designato come una specie di ghianda o di noce piatta.
Fu solo nel corso del Basso Medioevo che la coltivazione del castagno conobbe un’ampia diffusione, rivelandosi un’importante fonte di sussistenza dinnanzi a una popolazione che, a partire dal X-XI secolo, era in continua crescita per via della maggiore produttività agricola e dell’espansione delle città.
In Italia fu soprattutto la zona appenninica a essere interessata, negli ultimi secoli del Medioevo, a un incremento del numero di castagneti: Emilia, Toscana, Umbria, Lazio e Campania furono territori protagonisti di un progressivo addomesticamento dei boschi e dell’impianto di castagni.
Come la definisce lo storico Massimo Montanari nel suo volume Gusti del Medioevo, la castagna è il pane di montagna, era un alimento che laddove cresceva poco grano, quindi nelle zone montane, sostituiva il vero pane, quello ottenuto dai cereali. L’ampia diffusione dei castagneti ebbe come conseguenza una riconfigurazione dell’interno sistema agricolo-pastorale: se da un lato comparvero nuove figure professionali, come funzionari impiegati nella sorveglianza e protezione dei boschi, dall’altro il pascolo nelle zone boschive venne fortemente disciplinato, ad esempio evitando ai porcari di far pascolare i propri maiali nei castagneti durante la stagione di raccolta.
La possibilità di conservare a lungo questo frutto ha reso la castagna una risorsa primaria per le genti di montagna. Quelle fresche, dopo essere state raccolte dall’albero, percuotendolo, venivano poste ancora verdi in vasi chiusi ermeticamente o tenute in acqua per alcuni giorni finché non iniziavano a fermentare. Tuttavia, l’essicazione era il metodo più impiegato, eseguita sia al sole sia tramite il calore del fuoco. A tal proposito, l’agronomo bolognese Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa scrive che «subito raccolte si pongono in un graticcio, e sotto vi si fa fumo, e fuoco per molti giorni tanto che siano benissimo asciutte, e secche, come sassi». A questo punto le castagne venivano macinate e ridotte in farina.
Se nelle zone montane la castagna, grazie al suo elevato apporto di carboidrati, era fondamentale per combattere la fame, nelle città il suo consumo era legato al puro piacere. Ciò significa che per i contadini le castagne erano un’importante fonte di reddito: tra il 1200 e il 1300 si potevano acquistare a Parigi marroni lombardi, così come nei mercati di Costantinopoli e di tutto l’Egitto erano disponibili le castagne raccolte in Campania.
Ai giorni nostri la castagna è un prodotto il cui consumo, anche sottoforma di farina, è limitato al periodo autunnale e spesso a pochi momenti di convivialità. Si tratta di un frutto abbastanza costoso per via della disponibilità limitata e per il fatto che la raccolta viene eseguita a mano.
Se tra le lavorazioni più apprezzate delle castagne vi sono i marron glacé – castagne candite e glassate –, meritevole di attenzione è la mosciarella, uno dei più recenti Presìdi Slow Food, presentato lo scorso settembre a Terra Madre Salone del Gusto. La mosciarella non è una varietà di castagna, bensì un prodotto che si ottiene dall’essiccazione della castagna dei monti Prenestini, nel Lazio. La lavorazione, indispensabile per conservare il frutto, avviene nelle casette, piccoli locali in pietra costruiti nei boschi, dove vengono bruciate le ramaglie della potatura dei castagni e la spulla (cioè i resti delle bucce di castagne dell’anno precedente): il fumo e il calore sprigionati asciugano le castagne novelle, affumicandole leggermente. Una volta disidratate, vengono sottoposte alla battitura, volta a separare il frutto dalla buccia secca; a quel punto sono pronte per essere consumate in zuppe o trasformate in farina.
Una lavorazione, quella della mosciarella, che sotto molti punti di vista non si discosta da quella riservata alle castagne nel corso del Medioevo.