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Community Fridge, in Inghilterra vi è una dispensa di vicinato alla portata di tutti
Trascorrere le serate su YouTube a spulciare video può avere i suoi lati positivi. Non molte settimane fa, guardando una puntata di Vado a vivere in campagna, celebre format della BBC, ho scoperto dell’esistenza di un’interessante iniziativa che da Frome (uno scorcio nella foto qui sotto), una cittadina del Somerset, si è diffusa in tutto il Regno Unito: il Community Fridge.
In Justice Lane sorge un’allegra casetta a bande gialle, porpora e turchesi sede del Community Fridge. L’idea è semplice come il nome stesso suggerisce: si tratta di un frigorifero a disposizione dell’intera comunità, a cui è affiancata una dispensa non refrigerata, contenente prodotti alimentari a breve scadenza risultato spesso di eccedenze. Nel 2016 il consiglio comunale ed Edventure, un’associazione locale che si occupa di formazione e attività culturali, hanno istituito nel cuore di Frome il primo Community Fridge del Paese; nel luglio dell’anno seguente, Hubbub UK, un’organizzazione che opera in campo ambientale, ha dato vita alla National Network of Community Fridge, una rete che oggigiorno conta 250 frigoriferi in tutta la Gran Bretagna.
L’obiettivo dell’iniziativa è di notevole importanza: ridurre lo spreco alimentare. Il dieci per cento circa delle emissioni globali di gas serra sono riconducibili a questo fenomeno, tipico delle nazioni più sviluppate. Solo nel Regno Unito, ogni anno, sono gettati cinque milioni di tonnellate di cibo ancora edibile, pari a venti miliardi di sterline, quando nel Paese d’oltremanica vi sono 8,4 milioni di persone in condizione di povertà alimentare, ovvero incapaci di accedere ad alimenti sicuri, nutrienti e in quantità sufficiente per garantirsi una vita sana e attiva rispetto al contesto sociale in cui vivono.
Il novantacinque per cento del cibo presente nei frigoriferi di comunità proviene da attività che operano nel commercio al dettaglio e nella grande distribuzione come, nel caso specifico di Frome, Lidl, Coop e Greggs, una catena britannica di prodotti da forno. Se in alcuni casi sono le stesse attività a portare le eccedenze o i prodotti in scadenza al frigorifero, nella maggior parte dei casi sono i volontari a raccogliere direttamente presso i negozi, dopo l’orario di chiusura, gli alimenti. Un esempio a tal proposito: nella settimana del 18-24 marzo 2019 sono stati donati al Community Fridge di Frome 134,5 chilogrammi di cibo.
In Gran Bretagna il sessantanove per cento del cibo sprecato proviene da contesti domestici. Pensiamo solo al nostro piccolo; quante volte ci capita di acquistare del cibo e poi dimenticarlo in frigo o in dispensa? O di buttarlo perché non ci va più? Ebbene, anche i singoli cittadini possono donare il cibo acquistato e che, per varie ragioni, non consumano, purché sia conservato nelle confezioni originali e che non si tratti di pietanze preparate in casa, le quali, per motivi igienico-sanitari, non possono essere conferite al frigorifero di comunità.
In quanto servizio a disposizione dei residenti, ognuno può attingere dal Community Fridge. Non solo chi versa in condizioni di povertà alimentare, i senzatetto o chi si trova in una situazione economica precaria, ma anche giovani, anziani, chi passandovi a fianco ve n’è incuriosito o coloro che, semplicemente, cercano qualcosa di già pronto per pranzo o cena possono aprire lo sportello del frigo e prendere ciò di cui necessitano.
Tre sono i principali benefici del Community Fridge: la ridistribuzione del surplus di cibo, la diminuzione di gas serra prodotti dalla produzione di cibo e dallo smaltimento dell’eccesso e, infine, la riduzione della deforestazione causata dal bisogno di aumentare le aree agricole. È stato stimato che nell’arco di un anno per merito del Community Fridge di Frome l’emissione di gas serra è stata ridotta di 140 tonnellate, per un totale di 1.625 grazie ai frigoriferi di comunità presenti in tutto il Paese.
Inoltre, il Community Fridge svolge un importante ruolo a livello sociale. Per molti è uno spazio di aggregazione, l’unico luogo dove possono avere interazioni con altre persone. Allo stesso tempo, offre spunti di riflessione sulla situazione in cui versano l’ambiente e il prossimo: le persone sono portate a prendere dal frigorifero solo lo stretto necessario, senza alcuna eccedenza dettata dalla gola, pensando a coloro che verranno dopo.
È forse un caso se Frome nel 2021 è stata nominata dal The Sunday Times la migliore città del Sud-ovest dell’Inghilterra in cui vivere? Io non credo, e mi auguro di vedere presto in Italia iniziative simili.
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Autunno in Carinzia: festival ed eventi per celebrare l’arrivo della stagione
La Carinzia, regione meridionale dell’Austria, è il territorio dove la cultura austriaca incontra quella slovena e quella italiana. In questo luogo da sogno, tra montagne, boschi e laghi, spiccano per la loro qualità specialità enogastronomiche uniche, protagoniste di eventi imperdibili.
La Carinzia, infatti, vanta il primato di essere stata la prima meta al mondo a meritare l’ambito riconoscimento di destinazione Slow Food Travel, dove è possibile scoprire e gustare il meglio della cucina d’oltralpe.
L’arrivo dell’autunno è qui celebrato con festival e manifestazioni che mettono al centro del proprio programma le eccellenze gastronomiche di questa terra.
Festa del pane
Nella valle Lesachtal, dal 31 agosto al 1° settembre, la Festa del pane fatto in casa è un vero e proprio tuffo nel passato. L’intera zona si mobilita per contribuire all’organizzazione degli eventi, che includono spettacoli musicali e workshop dedicati alla preparazione del pane secondo la tradizione.
Durante il festival, il pane è cotto al momento e tutti i partecipanti hanno l’opportunità di portare a casa un sacchetto di pane fresco e fragrante.
Le Giornate della cucina Alpe-Adria
Dal 6 al 22 settembre si terranno le Giornate della cucina Alpe-Adria, che, per l’edizione 2024, offriranno ai partecipanti quattro diversi tour tematici: “Dal fornaio all’azienda vinicola”, “Tra le città dei draghi e l’entroterra sloveno”, “Alla scoperta dei sapori friulani nei dintorni di Udine” e lo “Slow Food Tour”. Questi itinerari guideranno i visitatori alla scoperta di produttori d’eccellenza e alimenti straordinari, attraversando Carinzia, Slovenia e Italia.
Le Giornate della cucina Alpe-Adria offriranno la possibilità di incontrare ottanta dei migliori produttori del territorio direttamente nella città rinascimentale di Klagenfurt. Nel centro storico, i visitatori troveranno una selezione di produttori di alimenti provenienti da Carinzia, Slovenia, Istria, Friuli-Venezia Giulia e Veneto.
KunstSinn
Dal 6 al 29 settembre a Neuhaus e nella Carinzia Meridionale avranno luogo una serie di appuntamenti che coniugano la coltivazione del grano saraceno e il mondo dell’arte e della musica. Il 28 settembre, ad esempio, si terrà una serata di esperienze uniche per tutti i sensi con il menu gourmet di quattro portate e il concerto del trio Keischn Kunterbunt.
Notti gastronomiche a Bad Kleinkirchheim
Dalla metà di settembre alla metà di ottobre, ogni venerdì e sabato, nel comune di Bad Kleinkirchheim si terranno le notti gastronomiche, un viaggio culinario all’insegna del gusto, per immergersi nella cucina regionale della Carinzia.
Le notti gastronomiche nascono per rappresentare il legame con il territorio e per promuovere la preziosa collaborazione tra i produttori carinziani e i cuochi di Bad Kleinkirchheim.
Di sera, le trattorie e i ristoranti che aderiscono all’iniziativa proporranno prelibati menù di più portate. I piatti saranno preparati esclusivamente con prodotti locali.
Tavole intorno al lago Millstätter See
Fino al 19 ottobre, i paesaggi che circondano il lago Millstätter See si trasformano in punti di ristoro culinari unici.
L’obiettivo delle Tavole intorno al lago Millstätter See è quello di far assaporare la tradizione culinaria locale immersi in un luogo suggestivo. Le aziende della zona presentano la loro cucina, che si distingue per l’uso di erbe aromatiche, verdure selvatiche, pesce fresco e diverse prelibatezze regionali.
Ogni settimana, le tavole imbandite (ognuna con un tema unico) mettono in mostra la varietà e la ricchezza dell’offerta culinaria della Carinzia.
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Paese che vai e street food che trovi: il meglio nel mondo e in Italia
Nell’ultimo decennio, quella per il cibo di strada, il cosiddetto street food, è diventata una vera e propria moda. I festival dedicati, di stagione in stagione, aumentano nel numero e sempre di più sembrano essere gli imprenditori che mostrano interesse nell’acquistare un ristorante su ruote e far conoscere i loro piatti in tutto il Paese e, se possibile, anche al di fuori dei confini. Da un lato, se per molti questa tendenza rappresenta una novità, un modo per scoprire piatti inusuali, magari esotici e lontani dalla quotidianità, dall’altro, lo street food gode di una storia millenaria che da sempre ha accompagnato le più grandi civiltà del passato.
Già nell’antica Grecia, per strada, si vendevano pesciolini fritti e nella Cina imperiale i nobili erano soliti spedire i propri servitori ad acquistare sfiziosi manicaretti dagli ambulanti agli angoli dei vicoli per gustare del cibo diverso da quello che veniva preparato nelle loro dimore. Ma fu nella Roma antica che il cibo di strada divenne una vera e propria istituzione: perlopiù zuppe di legumi e pane erano serviti nelle tabernae, delle botteghe dotate di un bancone di pietra con affaccio sulla strada, o in bancarelle smontabili che i lixae, i venditori ambulanti, allestivano nei pressi dei luoghi sacri.
Una cosa è certa: nel corso della storia, l’aumento del consumo di cibo di strada è stato conseguenza dello sviluppo urbanistico. La possibilità di poter pasteggiare fuori casa costituiva per i molti abitanti dei centri urbani, che non disponevano di cucine o forni nei loro alloggi, l’unico sostentamento, soprattutto se questi appartenevano alle fasce più povere della società. Si pensi che ancora oggi a Bangkok il quaranta per cento della popolazione consuma quotidianamente street food, mentre a Mumbai si conta mezzo milione di venditori ambulanti di cibo.
Ogni nazione, così come ogni singola città, possiede un cibo di strada iconico, unico per preparazione e storia: dal pani puri indiano, una specie di frittella cava che viene riempita con una salsa speziata dalla consistenza acquosa o con patate, all’hot dog newyorkese grondante senape ai churros spagnoli da intingere nel cioccolato fuso.
Ciò che valica ogni confine geopolitico e accomuna lo street food di ogni Paese è la cottura, spesso espressa, di pochi ingredienti che combinati tra loro danno vita a succulenti manicaretti da mangiare con le mani. Ogni senso è coinvolto in questa esperienza gastronomica, dove l’ambiente cittadino ne diventa il palcoscenico, andando a colmare quello spazio esistente tra il pasto servito al ristorante e quello consumato nella cucina di casa.
Negli ultimi anni, da quando il fenomeno dello street food si è affermato come tendenza, il cibo di strada è stato più volte equiparato al cibo spazzatura. Tuttavia, da questo si differenzia per l’impiego di materie prime selezionate che vengono lavorate di fronte al cliente, il quale prende parte come spettatore al processo culinario in atto; a differenza di quanto accade nelle cucine delle grandi catene di fast food dove i prodotti semilavorati vengono preparati lontano dagli occhi del consumatore.
L’Italia, per quanto riguarda il cibo di strada, può competere con quelle nazioni che hanno fatto di questa tipologia di ristorazione uno degli elementi cardine della loro cultura. Il Belpaese offre una varietà di street food che sa soddisfare ogni palato.
A Venezia è possibile assaggiare il tipico scartosso de pesse, un cono di carta paglia ricco di pesce fritto e verdure: calamari, gamberi, sarde e schie accompagnati, quando è stagione, dalle castraure, ovvero i germogli apicali dei carciofi, e da polenta arrostita.
Simile nella forma ma più ricco nel contenuto è il cuoppo napoletano, una cornucopia del miglior fritto partenopeo: crocchè di patate, palle di riso, mozzarelle in carrozza, fiori di zucca ripieni e frittatine di pasta.
E così le frattaglie, emblema della cucina povera, sono un ingrediente tipico di molti cibi di strada. A Firenze ad andare per la maggiore è il panino con il lampredotto; il lampredotto altro non è che l’abomaso, uno dei quattro stomaci dei bovini, cotto in brodo vegetale e irrorato di salsa verde. Mentre a Palermo è possibile addentare il pani câ meusa, un panino farcito con un misto di frattaglie, tra cui fegato, trachea e milza (da qui il nome) di viletto condito con limone o una grattugiata di ricotta salata.
Come non citare, in conclusione, la mitica piadina? Compagna di mangiate notturne all’uscita delle discoteche della riviera romagnola, la versione tradizionale la vuole farcita con squacquerone, rucola e prosciutto crudo.
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Scatta, mangia e condividi: come il mondo dei social ha cambiato la cucina
#foodporn. #foodie. #yummy. #foodgasm. Scorrendo la home di Instagram quante volte ci siamo imbattuti in questi hashtag e altri simili sotto a foto o reel di ricette, piatti stellati o legati alla cucina di tutti i giorni?
Sul web la cucina ha iniziato a far parlare di sé grazie all’avvento, all’inizio degli anni Duemila, dei primi blog e di YouTube, ma è merito dei social se negli ultimi dieci anni almeno è diventata uno degli argomenti più discussi.
I nostri smartphone ci permettono di connetterci con il mondo e di condividere, in tempo reale, tutto quello che facciamo. Sfera privata e sfera pubblica sono interconnesse fra loro, sfociano l’una nell’altra: il desiderio di far sapere a chi ci segue dove siamo, con chi e cosa stiamo facendo e la curiosità data dallo spiare le vite altrui vanno di pari passo con il senso di appagamento che riceviamo da questa condivisione. E il cibo non sfugge a questa legge.
È così che, attraverso Instagram, possiamo conoscere i gusti dei nostri follower o sapere qual è il loro ristorante preferito. E sotto la lente della fotocamera il cibo che fotografiamo o riprendiamo deve risultare tanto bello quanto buono perché, mai come ai giorni nostri, il detto “si mangia prima con gli occhi” ha valenza universale.
L’estetismo in cucina, tuttavia, non è di certo una novità del XI secolo e del mondo digitale. Pensiamo alle nature morte raffigurate nei dipinti dei pittori olandesi e fiamminghi del XVI e XVII secolo. Natura morta con formaggi, mandorle e krakelingen di Clara Peeters o Natura morta con pasticcio di pavone di Pieter Claesz sono due ottimi esempi: pietanze decorate secondo le mode dell’epoca e disposte con cura su tovaglie intonse, piatti e bicchieri – quelli che oggi chiamiamo props – sistemati con cura per dare profondità alla scena. Non è forse questo che cerchiamo di far emergere, a distanza di secoli, nelle foto che pubblichiamo nei nostri feed o nelle stories?
Il cibo dà piacere: dalla sua preparazione all’impiattamento, fino al consumo. Ma quando lo “consumiamo” online, questo piacere raggiunge il proprio apice: la visione luculliana di un piatto ci porta a cercare nuovi contenuti correlati, come in un infinito susseguirsi di cause ed effetti, tanto che il piacere che nasce da questa continua esposizione al cibo assume, in alcuni casi, una connotazione pornografica.
Questo fattore, ad esempio, ha dato origine al fenomeno del mukbang. Nato in Corea del Sud, il mukbang altro non è che una trasmissione online durante la quale una persona ingurgita, davanti a una telecamera, grandi quantità di cibo mentre interagisce con il pubblico. C’è chi trae piacere erotico nel sentire e vedere una persona masticare, risucchiare e deglutire, e chi su alcune piattaforme è disposto a pagare per assistere a questi eating show.
Tutto ciò ha una conseguenza: il tempo passato davanti a uno schermo, che sia quello del telefono, del computer o della tv, a spulciare contenuti legati al cibo è in costante crescita a discapito di quello passato in cucina. Molte persone provano una maggiore soddisfazione nel vedere gli altri cucinare, ad esempio guardando vlog o ricette su YouTube, piuttosto che sperimentare e cimentarsi nella preparazione di nuovi piatti. Questa tendenza sembra andare nella direzione opposta rispetto a quanto accadeva almeno una decina di anni fa: chi all’epoca navigava sul web alla ricerca di spunti culinari, lo faceva soprattutto per una funzione pratica – imparare a cucinare – e non per impiegare il proprio tempo libero in un’attività ludica.
D’altro canto, l’importanza che il cibo riveste nella nostra vita online ha portato, da un lato, alla nascita di nuove figure professionali, come food blogger e influencer, mentre dall’altro si è rivelato essere un’importante vetrina per ristoranti, bar e strutture ricettive. Dai ristoranti stellati, venerati come dei templi in cui ogni alimento trova la massima espressione, alle trattorie di paese, che servono piatti dall’animo più rustico, ogni locale è parte di una vastissima rete i cui nodi sono costituiti da foto, video e recensioni. Tutti noi, infatti, prima di prenotare un tavolo diamo una veloce occhiata al profilo Instagram di un ristorante, per vedere come sono presentate le pietanze e come appare il locale, al sito web, per consultare in anticipo il menù, e alle opinioni che gli altri clienti hanno lasciato.
Al contempo, all’interno di questa rete trovano posto anche i piccoli produttori che, grazie ai mezzi digitali, possono far conoscere i processi lavorativi che stanno dietro i loro prodotti e instaurare un rapporto diretto con i potenziali acquirenti.
Non si tratta di decidere, quindi, se questo rapporto simbiotico sia moralmente giusto oppure no, ma di delineare alcuni degli scenari a cui esso dà vita, magari provando a ragionare su quelli che verranno ed esplorare alcuni dei modi in cui il mondo digitale si riflette e permea nella cultura gastronomica.
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